La tendenza dei nuovi modelli top di gamma in arrivo sul mercato cristallizza una metamorfosi già in atto da anni nell’industria cinese degli smartphone: dalla celebre formula del “flagship killer” di OnePlus – novanta per cento delle prestazioni al sessanta per cento del prezzo – all’attuale corsa verso dispositivi premium con margini occidentali (leggasi Apple) e apparati fotografici che trasformano i telefoni in feticci ingombranti delle mirrorless.
L’epoca dei margini zero: OnePlus e l’insostenibilità del flagship killer
Nel 2014 l’allora 24enne Carl Pei (oggi a 36 anni, con Nothing, sfida le regole del mercato con la stessa miscela di provocazione estetica e lucidità industriale) costruì OnePlus su un modello radicale: vendere smartphone “appena sopra il costo di produzione”. OnePlus One, a 299 dollari, montava Snapdragon 801, display 1080p e 3 GB di RAM — specifiche da flagship a metà prezzo. Vendette un milione di unità nel primo anno. Ma il “flagship killer” funzionava come strategia di penetrazione del mercato, non come modello sostenibile. Pei stesso lo ammise anni dopo: “Dato che i telefoni di fascia alta hanno un prezzo più alto, generiamo più profitto per unità venduta”. Nel 2020, OnePlus 8 Pro costava tre volte tanto. La formula dei margini zero era già morta.
Hardware commodity: l’illusione della differenziazione
E in effetti la dinamica, oggi, è rovesciata: pur vendendo dispositivi a prezzi premium, i produttori cinesi top assemblano componenti praticamente identici. MediaTek Dimensity 9500 o Snapdragon 8 Elite dominano il segmento high-end. Vivo X300 Pro e Oppo Find X9 Pro montano entrambi il sensore Sony LYT-828 come fotocamera principale. Il teleobiettivo periscopico Samsung HPB da 200 MP è condiviso senza distinzione. Display LTPO Amoled da BOE o Samsung, batterie da 5.000-6.000 mAh prodotte da ATL o CATL.

In Europa, però, la rigidità normativa (una malattia che non riguarda solo le automobili) complica la vita ai produttori: le regole sul trasporto e la sicurezza delle celle limitano la capacità delle batterie a singola cella. Oppo aggira il vincolo con architetture “dual-cell”, che le consentono di offrire la stessa capacità dei modelli cinesi anche nel mercato europeo. Non così Vivo, che in patria propone l’X300 Pro con una super batteria da 6.510 mAh a singola cella silicio-carbonio, mentre in Europa deve scendere a 5.440 mAh.
Tutti pazzi per i super tele: è ancora fotografia?
Con hardware identico, la competizione si è spostata sul software di image processing. Quando la corsa si è concentrata sullo zoom estremo – 100x, 200x digitali come “killer feature” – la qualità è precipitata. Oltre il 10x digitale, gli algoritmi di super-resolution letteralmente inventano, producendo artefatti che assomigliano più a rendering artistici che a fotografie. Carl Pei, già nel 2020, avvertiva: “I consumatori sono attratti da zoom 100x. Ma sono davvero utili? Non ne sono certo.” Le partnership con marchi ottici storici – ovviamente europei (potrei aprire una polemica sulla doppia faccia del trasferimento tecnologico, ma andrei fuori tema) – completano il quadro: Vivo con Zeiss, Oppo con Hasselblad, Xiaomi con Leica. Le prime due sono arrivate a proporre, con i nuovi flagship, kit fotografici esterni che trasformano i dispositivi in feticci sgraziati, più che in vere mirrorless (cosa che non potranno mai essere).
L’illusione del professionismo tascabile
Vivo X300 Pro con kit Zeiss: telefono da 1 TB in Cina, più “photographer kit” con teleconvertitore Zeiss (da 85 mm a 200 mm) a circa 200 euro aggiuntivi. Totale: 1.200 euro, già esaurito su Trading Shenzhen. Il modello da 1 TB più kit fotografico da 300 dollari su Giztop arriva a 1.260 euro.
Oppo Find X9 Pro con kit Hasselblad: sistema magnetico con teleconvertitore 3.28x (da 70 mm a 230 mm ottici). Telefono 977 euro più kit 377 euro, sempre su Trading Shenzhen.

Il risultato? Uno smartphone con un cilindro ottico montato, che dovrebbe evocare una vera fotocamera (o piuttosto un ircocervo?), ma senza sensore APS-C o Full Frame, senza ergonomia dedicata, senza ecosistema di obiettivi intercambiabili. Il paradosso è evidente: una mirrorless autentica con teleobiettivo 200 mm f/2 costa almeno 2.500-3.000 euro. Il kit smartphone a 1.200-1.400 euro è meno caro, ma resta un goffo tentativo di imitazione dell’idea di fotografia professionale. L’obiettivo dichiarato – offrire fotografia di alto livello in mobilità, senza l’ingombro di un corpo macchina – naufraga in un compromesso che non soddisfa né chi cerca la portabilità dello smartphone, né chi vuole la qualità di una mirrorless.

La logica economica: margini alti, altissimi, quasi Apple
Un produttore cinese di flagship assembla componenti per un costo totale stimato tra 400 e 550 dollari, secondo le analisi di teardown. Le principali voci: chip MediaTek Dimensity 9500, sensori Sony o Samsung, display LTPO Amoled, batteria e assemblaggio, e altro. Prezzo di vendita in Cina: tra 800 e 1.000 euro, a seconda della memoria (fino a 1 TB). Margine lordo stimato: 45-55%, inferiore ad Apple (55-65%) ma superiore alla media Android occidentale (30-40%).

I veri profitti dall’ecosistema fotografico
È qui che il modello diventa interessante. I kit fotografici super-premium di Vivo e Oppo includono un’impugnatura con pulsante di scatto, componenti ottici certificati, elettronica e meccanica di precisione. Il costo di produzione stimato si aggira tra gli 80 e 150 dollari. Generano margini del 50-70%, superiori a quelli dei telefoni stessi. È il modello Apple applicato all’ecosistema accessori: i margini più alti risiedono nei componenti brandizzati, più che nei dispositivi base. Il profitto reale nasce dal sistema telefono più i suoi accessori, dove il branding premium giustifica prezzi che la sola innovazione tecnica non basterebbe a sostenere.
La carica degli smartphone cinesi a prezzi stratosferici è servita. Ma il valore reale, per il consumatore europeo, resta un’incognita.